Un altro ritorno è possibile. La storia del giovane maliano Mohammed

di Vincenzo Giardina, Vanity Fair n. 37 – 20 settembre 2017*

“Quando ho visto tornare mio figlio ho provato vergogna” scuote la testa Fodé Diallo, la schiena poggiata al bougou, la capanna di fango e canne di bambù dei villaggi peul e soninké. Siamo in Mali, a pochi chilometri dalla “strada della speranza” che dal Senegal punta verso il Niger e la Libia. Per arrivarci, a Oussoubidiagna, bisogna viaggiare ore su piste sterrate tra baobab e zaban, gli alberi dai frutti aspri che i soninké mangiano senza zucchero. È la stessa strada percorsa da Mohammed, 20 anni, un gigante color dell’ebano che a volte si immerge nei suoi pensieri e si allontana rapito dai ricordi. A casa è tornato da poco, dopo la prigionia in Libia, le notti in strada in Francia e l’angoscia nei centri di accoglienza in Italia.

Adesso racconta del pullman stracarico e del Sahara nigerino, della sosta ad Agadez e dell’arrivo nella piana di Tripoli: “Con i fratelli africani lavoriamo tutto il giorno sotto il sole. Alla sera non vogliono pagarci e ci portano pure al commissariato di polizia. Dal carcere mi fanno uscire due mesi dopo, quando si rendono conto che da dargli non ho proprio nulla. E mi consegnano ai trafficanti, in un magazzino vicino al mare, dove sono già rinchiusi in centinaia”. Sembra incredibile ma finisce che lo imbarcano gratis, perché tanto non ha soldi. All’orizzonte ci sono la Guardia costiera italiana e la Sicilia, poi il passaggio in Francia su consiglio di un amico che dalle parti di Parigi ha un fratello. In due mesi, senza documenti, Mohammed non lavora neanche un giorno. Allora torna in Italia, al centro di Pianello, dove cominciano gli incubi notturni: “Solo in un Paese straniero, senza nessuno accanto, mi viene paura di impazzire”.

È a questo punto che chiede aiuto ed è informato dei rimpatri volontari finanziati attraverso il Fondo asilo migrazione e integrazione (Fami) dell’Unione Europea. “Duemila euro per l’acquisto di capi di bestiame o comunque per l’avvio di un’attività che generi reddito e offra un’alternativa alla partenza” spiega Abdoulaye Diarra, mediatore culturale per Terra Nuova, una delle ong che insieme con la Cooperazione italiana hanno seguito il ritorno a casa di Mohammed, grazie al progetto “Back to the Future” gestito dal GUS. “È un investimento sul futuro, da monitorare nel tempo” continua Diarra. “Potrebbe aiutarci a definire gli interventi più efficaci per prevenire l’esodo dalle regioni rurali del Mali”.

La trattativa per le mucche dalle corna arcuate avviene all’ora del tramonto, su una spianata di granito oltre il fiume Senegal. Il venditore è un pastore peul in sella a una motocicletta cinese: “Se le dai da mangiare bene e vai a Bamako per la festa dell’Aїd el-Fitr la rivendi anche a 500mila franchi Cfa, tre volte il suo prezzo”. Mohammed resta in silenzio, ma sembra crederci e sperare che questo sia davvero un nuovo inizio. Eppure nel villaggio non tutti sono contenti, a partire da suo padre.

“Adesso chi mi aiuterà?” chiede Fodé, 60 anni e 20 figli da sei mogli: “Sono stanco e non abbiamo i soldi per il trattore e gli attrezzi che ci servono per coltivare”. La stagione delle piogge sarebbe dovuta cominciare da settimane ma i campi seminati ad arachidi e granturco bruciano sotto il sole. I germogli si sono seccati e pure le piante di fagioli. “Avrei voluto che mio figlio fosse restato in Italia” riprende Fodé. “Adesso conto sugli altri maschi. Hanno 14, 18 e 20 anni: spero partano presto”.

Eppure a Oussoubidiagna c’è stato tanto dolore. Nel Comune, che comprende il villaggio vicino di Madalaya, è difficile tenere il conto di figli, fratelli e nipoti inghiottiti dal Mediterraneo. “Ne abbiamo persi cento in un solo anno” calcola il prefetto, Bemba Tounkara. Sono gli stessi numeri forniti dall’ex ministro Kidiatou Sy Sow, prima donna governatrice del Mali, originaria proprio di questa regione. “L’Europa non può tirarsi fuori”, accusa, “e deve sapere che puntare sulla repressione poliziesca non farà desistere i migranti”. Lo si capisce bene a Madalaya. Non c’è famiglia che non abbia pianto un figlio. Mady Hawa Diaby ormai è cieco, ma ricorda e scandisce le parole: “Nel mare ne ho persi tre; volevano raggiungere l’Europa perché la nostra famiglia aveva bisogno”.

Storie migranti, che portano a nord ma anche a sud, verso gli impianti petroliferi dell’Africa centrale. Sono le rotte dei soninké, i figli dell’antico impero del Ghana, che il viaggio ce l’hanno nel dna e salutano sempre lo straniero con un cenno della mano e un sorriso. I loro villaggi sono al confine con il Senegal e la Mauritania, dove l’unica strada asfaltata ha mille buche ma è intitolata alla speranza. “Se non parti non sei nessuno” dice Mohammed: “Quando sono tornato mi hanno detto che ero stato male perché mi drogavo e che non valevo nulla”. Migrare significa lottare contro la povertà e aiutare i propri cari, ma anche crescere e diventare uomo. Te ne rendi conto ascoltando Boubou Diaby, uno che ce l’ha fatta e ai genitori ha potuto costruire una casa in cemento. Oggi a Madalaya è in vacanza: indossa la camicia, ha lo smartphone e la cadenza parigina. Vive in Francia da 16 anni e lavora come cuoco in un ristorante italiano sugli Champs-Élysées. Si presenta anche Modibo Sarakollé, 38 anni, scarpe all’europea, pure emigrante: al villaggio invia ogni anno 3000 euro, un tesoro.

Tutti hanno percorso la “strada della speranza”, da Kayes a Sendaré e poi fino alla Gare de Bamako, la stazione degli autobus che ripartono per il Burkina Faso, il Niger e la Libia. Ci sono cento compagnie ma i pullman fanno tutti fumo nero. Caracollano sul ciglio della strada, con i sedili bucati o una ruota a terra. Dal tetto penzolano cumuli di pacchi, mentre di lato il portabagagli inghiotte fattorini alle prese con montagne di valigie. Scene anche allegre a confronto di ciò che potrebbe essere dopo, dal Niger in poi. Alla stazione di Sendaré, per esempio. Un meccanico stringe viti sotto il telaio di un pullman carico di senegalesi. Sono fermi da tre ore ma sorridono: “‘Il n’y a pas de problème’, vedrai che ripartiamo”.

 

*Nel giugno scorso Vincenzo Giardina, giornalista dell’agenzia DIRE, ha viaggiato insieme al fotografo Massimo Perruti fino in Mali, passando da Bamako, la capitale, e poi dirigendosi verso il confine con il Senegal e la Mauritania, percorrendo all’inverso le rotte intraprese dai migranti per arrivare in Libia e poi in Italia. Nell’articolo scritto per Vanity Fair ha raccontato la storia di Mohammed, ritornato in Mali grazie al progetto “Back to the Future” gestito dal GUS.

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